Nesso tra trasfusioni di sangue infetto e decesso: possibile una posizione del giudice diversa da quella consulente tecnico

Fondamentale potere individuare il percorso logico-giuridico seguito dal giudice per discostarsi dalle conclusioni peritali

Nesso tra trasfusioni di sangue infetto e decesso: possibile una posizione del giudice diversa da quella consulente tecnico

In materia di accertamento della responsabilità e del nesso causale tra emotrasfusioni di sangue infetto e decesso, qualora il giudice intenda discostarsi dalle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, è tenuto a fornire una motivazione adeguata, e non meramente apparente, che spieghi in modo esauriente le ragioni del mancato recepimento di quel parere. In particolare, nel caso di concause del decesso, il semplice riferimento alla presenza di una patologia concomitante, quale possibile causa alternativa, non è idoneo a giustificare l’esclusione del nesso eziologico con l’infezione contratta, dovendo invece il giudice motivare specificamente sulla preponderanza dell’una o dell’altra causa, secondo il criterio del “più probabile che non”. Pertanto, la motivazione deve consentire di individuare il percorso logico-giuridico seguito dal giudice per discostarsi dalle conclusioni peritali, non potendo limitarsi a mere affermazioni apodittiche o generiche che non permettano di comprendere le ragioni del suo convincimento. Il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute non esclude di per sé il rapporto di causalità tra l’evento lesivo principale e il decesso, dovendo essere valutata la loro effettiva incidenza causale attraverso un’analisi specifica e motivata.
Questi i principi di diritto fissati dai giudici (ordinanza numero 22388 del 4 agosto 2025 della Cassazione) alla luce del contenzioso originato dalla richiesta di risarcimento avanzata nei confronti del Ministero della Salute dai familiari di un uomo deceduto
a causa dell’aggravamento dell’epatite post-trasfusionale da lui contratta a causa di emotrasfusioni subite nel 1984 e nel 1985 durante un ricovero in ospedale.
In premessa, i magistrati di Cassazione ricordano che nel nostro ordinamento vige in astratto il principio judex peritus peritorum, in virtu’ del quale è consentito al giudice di merito disattendere le argomentazioni tecniche svolte nella propria relazione dal consulente tecnico d’ufficio, e ciò sia quando le motivazioni stesse siano intimamente contraddittorie, sia quando il giudice sostituisca ad esse altre argomentazioni, tratte da proprie personali cognizioni tecniche. In entrambi i casi, l’unico onere incontrato dal giudice è quello di un’adeguata motivazione, esente da vizi logici ed errori di diritto. In altre parole, le valutazioni espresse dal consulente tecnico d’ufficio non hanno efficacia vincolante per il giudice, il quale, tuttavia, può legittimamente disattenderle soltanto attraverso una coerente e convincente valutazione critica, che sia ancorata alle risultanze processuali e risulti congruamente e logicamente motivata, mediante l’indicazione degli elementi di cui si è avvalso per ritenere erronei gli argomenti sui quali il consulente si è basato, ovvero gli elementi probatori, i criteri di valutazione e gli argomenti logico giuridici per addivenire alla decisione contrastante con il parere del consulente.
Là dove intenda discostarsi dalle conclusioni peritali, il giudice di merito è tenuto ad un più penetrante onere motivazionale, in quanto deve illustrare accuratamente le ragioni della scelta operata, in rapporto alle prospettazioni che ha ritenuto di disattendere, attraverso un percorso logico congruo, che sia ancorato alle risultanze processuali ed evidenzi la correttezza metodologica del suo approccio al sapere tecnico- scientifico, a partire dalla preliminare, indispensabile verifica critica in ordine all’affidabilità delle informazioni scientifiche disponibili ai fini della spiegazione del fatto.
Ciò detto, tornando alla vicenda in esame, le argomentazioni svolte dalla Corte d’appello risultano meramente descrittive, osservano i giudici di Cassazione, poiché esse vengono svolte sul rilievo della mera esistenza di condizioni cliniche del paziente e della loro mera sequenza o cronologia temporale, mediante affermazioni generiche ed assertive, al punto da risultare non intellegibili. In sostanza, si è arrivati ad una motivazione solo apparente, dato che non tiene nella dovuta attenzione la circostanza che la consulenza tecnica d’ufficio, in processi come quello in esame, è di tipo percipiente e dunque non può essere disattesa in modo generico ed assertivo, bensì sostituendo alla valutazione tecnica non condivisa l’altra e diversa valutazione tecnica, su cui si è fondato il convincimento del giudice. Risulta pertanto del tutto inadeguato il passaggio motivazionale con cui i giudici di merito escludono rilevanza, quale concausa dell’exitus, al carcinoma epatico conseguente alla trasfusione di sangue infetto.
Se non può dubitarsi che al giudice sia consentito discostarsi dalle valutazioni del consulente tecnico d’ufficio, sostituendovi proprie diverse argomentazioni, il giudice medesimo ha l’onere di risolvere, sulla base di corretti criteri, i problemi tecnici connessi alla valutazione degli elementi rilevanti ai fini della decisione, e una carenza sotto tale profilo si traduce in un vizio della motivazione della decisione.
Peraltro, nel discostarsi dalle risultanze peritali con lo svolgimento di argomentazioni puramente descrittive ed assertive, i giudici di merito sono anche incorsi nella non corretta applicazione del principio di causalità, aggiungono i magistrati di Cassazione.
Su questo fronte, cioè in tema di responsabilità civile, la verifica del nesso causale tra condotta (commissiva od omissiva) e fatto dannoso deve compiersi sulla scorta del criterio (o regola di funzione o, altrimenti detta, regola probatoria) del “più probabile che non”, conformandosi ad uno standard di certezza probabilistica, che, in materia civile, non può essere ancorato alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (cosiddetta probabilità quantitativa), la quale potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e, nel contempo, di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili nel caso concreto (cosiddetta probabilità logica).
In sostanza, vi è la necessità di una analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo processo, della singola vicenda di danno, della singola condotta causalmente efficiente alla produzione dell’evento, tutte a loro volta permeate di una non ripetibile unicità.
L’ineludibile esigenza di ancorare l’accertamento del nesso causale alla concretezza della vicenda storica comporta una traslazione della regola sostanziale in quella processuale ed impone di calare il giudizio sull’accertamento del nesso causale all’interno del processo, così da verificare, secondo il prudente apprezzamento rimesso al giudice del merito, la complessiva evidenza probatoria del caso concreto e addivenire, all’esito di tale giudizio comparativo, alla più corretta delle soluzioni possibili. Di qui, la vitalità del criterio della cosiddetta evidenza del probabile nell’ambito del singolo processo e della singolare vicenda processuale, che, dunque, non si risolve nella preponderanza dell’evidenza legata al criterio del “50 per cento + 1” (tipico della cultura giuridica anglosassone), ma potrà giungere all’affermazione di sussistenza del nesso di causalità materiale anche in situazioni di probabilità minori (senza per ciò dar luogo ad ipotesi di perdita di chance), tenuto conto delle acquisizioni probatorie, sia in positivo, che in negativo, ossia come assenza di fattori alternativi plausibili.

Mostra di più...