Detenuto suicida in carcere: responsabile l’amministrazione penitenziaria
Decisiva l’omissione degli specifici obblighi di sorveglianza e valutazione psicologica del soggetto al momento dell’ingresso nella struttura

In caso di suicidio di un detenuto, è palese la responsabilità dell’amministrazione penitenziaria qualora essa abbia omesso di adempiere agli specifici obblighi normativi di sorveglianza e valutazione psicologica del soggetto al momento dell’ingresso in istituto. Questo il principio fissato dai giudici (ordinanza numero 29319 del 13 novembre 2024 della Cassazione), i quali hanno perciò condannato il Ministero della Giustizia a risarcire i familiari per la morte del loro congiunto, suicidatosi alle 7 del mattino mentre si trovava ristretto, dalla sera precedente, in una struttura carceraria a seguito di un’ordinanza custodiale. Corretta la tesi proposta dai familiari dell’uomo, tesi mirata ad evidenziare la responsabilità dell’amministrazione penitenziaria per omessa vigilanza. Su questo fronte, difatti, i giudici, analizzando in dettaglio la vicenda, precisano che l’omesso colloquio con un esperto di osservazione e trattamento per verificare la capacità del detenuto di affrontare lo stato di restrizione, nonché l’inosservanza delle disposizioni dell’autorità giudiziaria circa il regime di detenzione da applicare, costituiscono violazioni rilevanti sul piano causale rispetto all’evento lesivo, non potendosi considerare il suicidio quale fattore eccezionale e imprevedibile interruttivo del nesso causale. Consequenziale, quindi, il diritto dei familiari dell’uomo ad ottenere quasi 170mila euro come risarcimento del danno non patrimoniale subito per la perdita del rapporto parentale. In sostanza, l’amministrazione penitenziaria non ha adottato tutte le misure idonee ad evitare l’evento, soprattutto perché un esperto di osservazione e trattamento effettua un colloquio con il detenuto o internato all’atto del suo ingresso in istituto e ciò per verificare se ed eventualmente con quali cautele possa affrontare adeguatamente lo stato di restrizione. Il risultato di tali accertamenti è comunicato agli operatori incaricati per gli interventi opportuni e al gruppo degli operatori di osservazione e trattamento. Invece, l’uomo poi suicidatosi non fu sottoposto ad alcuna osservazione funzionale a verificarne la capacità di affrontare adeguatamente lo stato di restrizione e ciò in quanto al momento dell’ingresso in carcere non c’erano né l’educatore né lo psicologo. Peraltro, se l’uomo fosse stato sottoposto a regime di detenzione comune, come peraltro espressamente richiesto dal pubblico ministero, i suoi intenti suicidari sarebbero stati impediti o comunque resi di assai più ardua realizzazione dalla presenza di altri detenuti, chiosano i magistrati.